Non sempre la normativa in materia di etichette e denominazioni commerciali aiuta la comprensione dei consumatori perché sappiano realmente cosa stanno comprando. Non ci addentriamo sul perché di tali scelte da parte di chi emana queste direttive, e, per restare nel tema, basta riflettere sul fatto che il maggior produttore di Aceto Balsamico di Modena sta in Campania. Come è possibile? Semplicemente perché la dizione “Aceto Balsamico di Modena” può (finora) venir usata per un prodotto industriale che poco o nulla a che vedere con la millenaria tradizione dell’Aceto Balsamico, e si può produrre ovunque. Questo prodotto industriale, infatti, viene ottenuto aggiungendo a vino (di qualità non stabilita) o mosto del comune aceto di vino (anche questo di qualità non definita), coloranti, zucchero concentrato o caramello, conservanti. E’ una lavorazione che non richiede lunghi tempi di realizzazione, ma si può poi procedere all’invecchiamento del prodotto per nobilitarlo. Ovviamente, è possibile utilizzare ingredienti biologici, e fare un prodotto certificabile a tutti gli effetti. Ma, comunque, dal profilo organolettico non esaltante, anche se gradevole grazie alla commistione di zucchero ed elementi acidi.
In effetti, tra Modena e Reggio Emilia, si produceva e si produce tutt’altra cosa: alla base di tutto c’è il mosto di vini, principalmente Trebbiano e Lambrusco, che, invece di subire il processo di fermentazione (vino) e successiva ossidazione (aceto), viene bollito a fuoco molto lento. Gli zuccheri naturali del mosto si caramellizzano, e il grado zuccherino complessivo aumenta di circa il doppio. Il mosto cotto è già pronto per accompagnare formaggi, dolci, gelato. Anzi, forse il gelato stesso nacque dall’unione di neve e mosto cotto, prima di essere rielaborato nelle nobili corti siciliane. Del resto, il mosto cotto o sapa, veniva già usato nell’antica Grecia, e quindi dai Romani. Furono certamente i nobili, e gli alchimisti, a fare il passo successivo, ponendo il mosto cotto a riposare in piccole botti di legno. Chimicamente, accade che parte degli zuccheri viene trasformata in alcol dai lieviti naturali presenti nel mosto, e questo alcol viene poi attaccato dagli acetobatteri, e si trasforma in acido acetico. E’ un semplice processo di ossidazione, simile a quello che subisce una bottiglia di vino smezzata e lasciata aperta. Il tutto, però, avviene, nel nostro caso in legno, lontano dalla luce e con un attento controllo dei fenomeni di trasformazione del mosto. Dopo qualche anno, l’attività degli acetobatteri cessa, l’alcol è tutto trasformato. In questa fase, è il legno che interviene, cedendo al mosto i suoi aromi, i suoi tannini. L’aspetto più strettamente legato all’alchimia, è proprio l’accortezza di utilizzare botticelle di legni diversi, dal castagno al gelso, al ginepro, al ciliegio al rovere.
Interrompendo qui la maturazione abbiamo un prodotto mediamente concentrato, gradevole ed eclettico. In mancanza di riferimenti normativi certi, i produttori tendono a denominare “condimenti” o “aceti invecchiati” questi prodotti. Tra i quali, e va detto, si possono facilmente annidare prodotti spuri che hanno subito una concentrazione ed un’ossidazione non naturale, partendo magari da mosti concentrati attraverso procedimenti diversi dalla riduzione per cottura, proprio per una mancanza di normative di riferimento e, soprattutto, di organi e sistemi di controllo. Se non è possibile, allo stato attuale, dichiarare che un vino ha dieci anni di invecchiamento se non è stato realmente dieci anni in cantina, sui condimenti balsamici possiamo avere meno gradi di certezza. Ciò che invece non è assolutamente possibile mistificare è l’intero processo di invecchiamento, che segue la maturazione, durante il quale la sola attività enzimatica equilibra perfettamente l’agro col dolce, e il mosto si concentra ulteriormente, scambiando con i vari legni l’intera gamma di profumi e sapori. Durante tutte la fasi di ossidazione, maturazione ed invecchiamento, il mosto viene rabboccato via via dalla botte più grande (60/70 litri) a quella immediatamente più piccola, fino a quella in rovere da 10/15 litri che rappresenta lo stadio finale. Se tutto si è svolto secondo i canoni, col costante controllo di un organismo indipendente appositamente istituito che controlla e garantisce la qualità del Consorzio Produttori di Aceto Balsamico Tradizionale di Modena o Reggio Emilia (secondo la zona di produzione ed acetificazione), e se il prodotto finale supera l’esame dell’assaggio, il produttore ottiene l’autorizzazione ad imbottigliare una parte stabilita di Aceto Balsamico Tradizionale nelle canoniche ampolle di vetro, pure queste di capacità e forma rigidamente definita. Ciascuna ampolla viene numerata a mano, e riceve il bollino del Consorzio che ne garantisce la qualità e l’invecchiamento: almeno 12 anni per avere il bollino Rosso Aragosta. E l’invecchiamento può continuare, sempre sotto attenta vigilanza, fino a meritare il bollino Argento, dopo almeno 20 anni e il bollino Oro dopo almeno 25 anni. Dei 70 litri di mosto iniziale, solo 3 ogni anno potranno ricevere il bollino.
Era tradizione iniziare una nuova batteria perché dotasse la figlia femmina appena nata, così che l’aceto balsamico tradizionale fosse pronto per il suo matrimonio. Certamente, così fece Bonifacio, vassallo imperiale di Enrico III “Il Nero”, signore di Canossa, marchese di Toscana poiché l’imperatore, avendo “udito farsi colà perfettissimo” aceto, glie ne chiese per lettera un assaggio, facendo appositamente tappa a Piacenza in occasione del suo viaggio a Roma per l’incoronazione. La lettera imperiale è del 1046. Bonifacio fa costruire appositamente una botticella in argento e la manda all’imperatore come dono da parte di un suo devoto servo. L’imperatore gradì moltissimo il dono: “carum rex donum tenuit magnumque decorum”, rispose Enrico. Anche questo forte segno di devozione, probabilmente, e la memoria della fedeltà al padre, spinse poi Enrico IV, figlio di Enrico “Il Nero”, ad accettare l’intermediazione di Matilde, figlia di Bonifacio e contessa di Canossa, che organizzò il famoso incontro “del perdono” con Ildebrando di Sovana, Papa Gregorio VII, il 22 gennaio 1077.
Ora, Aceto Balsamico Tradizionale è un marchio DOP per Regolamento CEE. Ma, benché si tratti di un prodotto assolutamente insostituibile perché dissimile da qualsiasi altra specialità gastronomica, vediamo che basta togliere il semplice aggettivo “tradizionale” dal nome per fare qualcosa di assolutamente diverso, e nemmeno della stessa famiglia.
Si noti, infine, che proprio il lungo invecchiamento (minimo 12 anni) e il precedente periodo di rispetto che occorre ad un’azienda vinicola per ottenere la certificazione biologica (3-5 anni), pongono dei limiti temporali al reperimento di Aceto Balsamico Tradizionale con certificazione bio ai sensi del Regolamento CEE in materia, che è del 1991, solo 22 anni fa.